Time to (design) think!

La crescita di un’azienda è legata a doppia mandata alla crescita delle persone che vi lavorano: stimolare le proprie risorse ad acquisire nuove competenze è, quindi, un’ottima strategia per favorire il benessere del proprio business. Tuttavia, come manager, bisogna essere capaci di raggiungere un equilibrio tra il percorso di formazione utile e desiderato dal singolo e le necessità della collettività.

Questa riflessione nasce da una disputa tra colleghi, precisamente dall’incontro di due opinioni differenti su come interpretare il  “so di non sapere” di Socrate, traducendolo nel mondo aziendale.

Consapevoli del valore di riconoscere la nostra ignoranza, abbiamo aggiunto una domanda: “… E dopo?”

Cosa succede, cioè, in un gruppo organizzato, quando uno dei suoi membri prende coscienza di non sapere qualcosa di necessario? 

Da una parte potremmo pensare che sia importante spingere più in là i nostri limiti sempre e comunque e non accontentarci (ad esempio, imparando a utilizzare diverse modalità di pensiero, come raccontavamo nello scorso articolo di questa serie), dall’altra che sia opportuno rivolgerci a un altro membro che possiede ciò che a noi manca.

Prima di addentrarci nella risposta, una precisazione: calata nel mondo dell’impresa, probabilmente la questione riguarda le attitudini e le capacità di una persona, più che le sue conoscenze. Secondo la rilettura del celebre KSA model da parte di Caiozzo, Cito, Taggiasco (2016) , le conoscenze corrispondono al “sapere”, le capacità o skill al “saper fare” e le attitudini al “saper essere”.
Tutte insieme esse danno vita alle competenze, che sempre Caiozzo, Cito e Taggiasco definiscono come “comportamenti osservabili che manifestano l’uso intenzionale di conoscenze, skills e abilità”. È proprio sul riconoscimento, sull’attivazione e sulla combinazione delle competenze che si basa la nostra riflessione.

Tornando alla nostra disputa, ciò che accomuna le due risposte – insisto o passo la palla – è l’avere come punto di partenza il singolo, mentre adesso proviamo ad adottare un ragionamento che pone al centro non l’individuo ma l’ecosistema in cui la persona è inserita.

Possiamo infatti pensare un’azienda come un ecosistema organizzato attorno a una visione e degli obiettivi. In tal caso, la competenza di ciascuno dei suoi componenti è una risorsa al tempo stesso individuale – di chi ne è portatore o portatrice – e collettiva.

In quest’ottica, scegliere cosa viene dopo la consapevolezza di non sapere, non dipende solo dal carattere e dalle necessità del singolo ma anche dai bisogni dell’ecosistema.

Sarà quindi opportuno chiederci: nel momento che stiamo vivendo e in base agli obiettivi che ci prefiggiamo, per l’ecosistema è più utile che il singolo prenda del tempo per lavorare sui propri limiti o serve una maggiore velocità per cui è opportuno che “passi la palla” a qualcun altro già pronto a mettere in gioco una determinata competenza?

E al tempo stesso, come perseguire il bene dell’ecosistema senza che i singoli componenti si sentano frustrati nella propria possibilità di crescita e autodeterminazione?

Questo passaggio costituisce una grandissima prova di consapevolezza, accettazione e fiducia.

1. Accettazione di essere una risorsa per il gruppo, che in un dato momento è in grado di portare portare alcune cose e non altre.

2. Consapevolezza delle competenze che ciascuno di noi possiede.

3. Consapevolezza delle competenze che possiedono gli altri membri del gruppo.

4. Consapevolezza del fatto che le competenze sono allenabili e variano nel corso della vita.

5. Consapevolezza dello stato emotivo in cui ci troviamo e di quanto riusciamo a esprimere le nostre competenze in questo determinato momento.

6. Consapevolezza di ciò che serve al gruppo per raggiungere gli obiettivi.

7. Fiducia nel fatto che prestarci come risorsa al gruppo servirà per crescere insieme a lui.

8. Fiducia nei nostri compagni di gruppo.

 

Vederci come delle risorse, ci mette nella condizione di scegliere quelle più adatte a una determinata situazione.

L’ecosistema, come ci insegnava il sussidiario a scuola, a volte ha bisogno di una maggior quantità di acqua, altre di sole, a volte una determinata specie è indispensabile all’equilibrio dell’ecosistema, in altri casi può diventare infestante.

È complesso accettare che a volte non siano le nostre le caratteristiche quelle più adatte ad affrontare una situazione ma la bellezza della natura e degli ecosistemi sta nel loro dinamismo costante. 

Sempre più spesso, nel recruiting si prende in prestito il concetto darwiniano dell’essere adatt*. Il fatto che non siamo una risorsa adatta a un determinato ecosistema (leggi azienda), non è un indice del nostro valore ma descrive come ci combiniamo con gli altri elementi dell’ecosistema in determinate condizioni.

Ogni gruppo, infatti, ha un proprio carattere e una specifica concentrazione degli elementi che lo compongono e il ruolo e l’utilità degli elementi non hanno valore assoluto bensì relativo agli altri.

Proviamo a pensare a un’impresa di forte stampo tecnico in cui il 90% delle risorse ha un background ingegneristico, in questo caso se essa volesse trasformare la propria modalità di relazione con il mercato, oltre ad agire su processi e strategie esistenti, sarebbe utile comprendere se tutte le competenze necessarie sono rappresentate dalla popolazione aziendale o se è necessario introdurne o formarne di differenti. Viceversa in una realtà in cui è preponderante un approccio umanista e people driven, la presenza di un membro con una visione economic driven potrebbe portare contemporaneamente un rischio di rottura e un’occasione per adottare un punto di vista complementare.

Ancora una volta osserviamo quanto in un ecosistema scompaiano le visioni assolute a favore di riflessioni relative.

Ritornando quindi al nostro punto di partenza, possiamo affiancare al “so di non sapere” una domanda: “so di cosa c’è bisogno?”, il cui valore non sta tanto nella risposta quanto nel cambiare prospettiva dall’io al noi.