Time to (design) think!

Nello scorso articolo abbiamo indagato il rapporto che vi è tra controllo esercitato e libertà offerta in ambito aziendale. Come coniugare questi aspetti, perseguendo la vision dell’azienda e, al contempo, dando autonomia di pensiero e azione alle persone? Secondo noi, con la formazione continua. Per addentrarci nel vasto mondo della formazione, vogliamo proporvi una riflessione sulla risorsa fondamentale sulla quale si innesta l’acquisizione di nuove competenze: la flessibilità di pensiero.

Il dubbio per smantellare i pregiudizi cognitivi

flessibilità

/fles·si·bi·li·tà/

 

  • La proprietà o la caratteristica di essere flessibile, facilità a piegarsi, e, in senso fig., a variare, a modificarsi, ad adattarsi a situazioni o condizioni diverse. (Treccani)

Da sempre siamo abituati a pensarci molto più statici di quello che siamo realmente.

“Non sono fatto per lavorare in gruppo.”
“Non sono una persona creativa.”
O, viceversa:
“Sono una persona creativa e poco analitica.”
“Lavoro bene solo in gruppo.”

Questo modo di percepirsi, comporta che pensiamo di essere in grado di compiere solo alcune mansioni, o fare esclusivamente certe attività e questo ci porta a sentirci a nostro agio solo nella sfera di competenze nelle quali ci riconosciamo. Attenzione, però, a cedere alla tentazione di “accomodarsi” in pensieri come questi: spesso, infatti, si tratta di meri preconcetti e accettarli come dati di fatto significa commettere un errore cognitivo, basato su un pregiudizio che abbiamo verso noi stessi. 

Questo bias impatta anche sul lavoro in azienda: infatti, se, da un lato, avere risorse verticali su un settore significa potersi affidare a professionisti specializzati, dall’altro spingere le persone a uscire dalla propria comfort zone per sperimentare nuove attività e nuovi approcci significa ampliare il bacino di competenze su cui fare affidamento. Il mondo del lavoro cambia velocemente, evolvendosi di pari passo con un mercato in continuo fermento: il business del futuro va verso la direzione della contaminazione, dell’anticipazione dei trend che si presenteranno e della ricerca continua. Per questo, i professionisti di cui abbiamo bisogno sono persone in grado di adattarsi al mutamento, capaci di attivare risorse trasversali, ma, al contempo, mirate sulle necessità dell’azienda o degli stakeholder di questa.

Per andare in questa direzione, secondo noi, uno dei compiti di un manager è quello di dare alle proprie risorse l’input per sperimentare nuove modalità, in prima istanza, di pensiero. Come fare, quindi, per uscire dalle “gabbie mentali” che ci auto-imponiamo e come passare questo nuovo approccio ai professionisti della propria azienda?

Un buon punto di partenza potrebbe essere una “pratica filosofica” che proviene dall’antica Grecia: la maieutica* socratica. Socrate ci insegna a praticare il fondamentale – e, scoprirete, liberatorio! – esercizio del dubbio. Il punto di partenza che dovremmo imparare ad anteporre a qualsiasi valutazione è racchiuso nel celebre motto “so di non sapere”: Socrate, infatti, elaborò un vero e proprio metodo per portare il suo interlocutore a comprendere, attraverso una serie di domande, che le convinzioni nutrite in partenza spesso e volentieri si rivelano essere false o infondate.** Il presupposto del “so di non sapere” non è, come può sembrare, un punto di partenza negativo: l’ammissione di ignoranza si pone come base per la pars construens del metodo socratico, ovvero la volontà di conoscere e di fare ricerca.

Questa metafora ci può aiutare a riflettere sugli errori cognitivi che ci portano a considerarci ingabbiati in una determinata modalità di pensiero e a condurci verso un approccio più flessibile: perché partire prevenuti in merito alla possibilità di apprendere e sperimentare nuove forme di pensiero e ragionamento? Il “so di non sapere” è, quindi, un’ammissione di ignoranza che dovrebbe spingerci ad abbandonare le nostre convinzioni e a fare la nostra ricerca. Chissà dove potremmo arrivare.

Facoltà creative e analitiche: due strade parallele?

È convinzione comune che ci siano competenze che si trovano innate in ognuno di noi, ma questa idea è – parzialmente – erronea: se è un dato di fatto che esistano delle inclinazioni individuali, è altresì vero che molte delle attitudini e propensioni che crediamo ci definiscano sono, invece, skill che si possono apprendere. Una di queste è proprio il pensiero flessibile, che è un presupposto fondamentale per sviluppare facoltà cognitive opposte ma complementari: le creative e le analitiche, entrambe fondamentali per potersi spendere in attività di diversa natura e in differenti momenti progettuali. Questa categorizzazione è ampiamente utilizzata nel mondo del lavoro e porta ad avere una precisa distinzione tra i creativi, la cui risorsa principale sta nel cosiddetto pensiero divergente o laterale, e gli analitici, che hanno un approccio cognitivo di tipo convergente o matematico.

Tuttavia, una divisione così netta è poco proficua, in quanto, non solo, induce all’errore cognitivo che abbiamo appena visto, ma limita anche la crescita professionale del singolo e quindi anche quella collettiva del business aziendale. L’esempio più classico in questo senso riguarda la creatività, competenza che viene tendenzialmente considerata come appalto di poche persone (chi non si sente creativo non si darà mai la possibilità di esserlo) e necessaria soltanto in certi reparti dell’azienda. Il libro Creative Confidence (Tom e David Kelley) spiega invece come la creatività sia in realtà una competenza da poter apprendere come molte altre, e come questa possa essere insegnata, indirizzata, stimolata e guidata attraverso l’utilizzo della giusta metodologia e dei giusti tool.

Pensiero convergente e divergente come base per la progettazione

Il pensiero flessibile è un elemento fondante degli approcci design driven, il cui valore fondamentale, infatti, è che ogni persona è in grado di attivare in modo consapevole diversi tipi di ragionamento, in maniera fluida. Siamo noi che governiamo e indirizziamo il nostro pensiero e non è il nostro modo di ragionare che ci identifica.

Come si potrebbe, d’altronde, progettare attivando un solo tipo di pensiero?

Le modalità di ragionamento che vengono sfruttate in un processo di progettazione creativa sono due: pensiero divergente e convergente

Il primo è un pensiero di apertura, che mira a contaminarsi con tutto il possibile, un ragionamento che è in cerca di qualcosa. Il secondo ha, invece, come obiettivo quello di “chiudere”, di selezionare.

Se dovessimo trovare due metafore, il pensiero divergente è il cannocchiale che ci permette di guardare lontano ed esplorare cose inaspettate; quello convergente è un setaccio: il vecchio setaccio dei cercatori d’oro, che fa emergere quello che è davvero importante.

 

Visivamente queste due modalità di pensiero sono rappresentate con dei tratti che si aprono e chiudono rimodellando lo spazio del pensiero che includono, dove l’aprirsi e il chiudersi di questo movimento “spinge” in avanti il progetto, diventa la sua propulsione, il suo motore.

Queste due modalità, infatti, non sono in conflitto ma si completano, si alimentano e si accrescono a vicenda, e la capacità del progettista è quella di riconoscere il momento progettuale in cui attivare quella corretta per quella fase del progetto, di “mettersi il giusto cappello”. L’attivazione di una modalità o dell’altra non va percepita come il conflitto tra due forme di pensiero, ma come due mindset che dobbiamo acquisire e dominare dalla nostra cabina di comando. Dobbiamo, quindi, passare da una visione rigida a una visione fluida in grado di:
– riconoscere i diversi contesti;
– attivare la modalità di pensiero corretta per la situazione in cui ci troviamo.

Resta valido che come propensione siamo più portati ad avere un tipo di pensiero, a essere più a nostro agio e appagati nell’affrontare alcune attività, ma dobbiamo essere consapevoli che questo non è vincolante per noi. Certo, quello che sentiamo meno nelle “nostre corde” ci richiede maggior concentrazione e impegno, ma è anche quello che ci porta a una crescita maggiore, a scoprire cose nuove di noi, a metterci alla prova e a sorprenderci. Sapere, infatti, che possiamo essere in grado di fare una cosa è ciò che realmente ci dà la motivazione per farla accadere davvero (come ci ricorda il criterio di Self Efficacy di Bandura). 

Alla luce di questo, è importante, come manager, motivare le risorse dell’azienda a sperimentare attività che escono dalla propria sfera di competenza verticale, e garantire loro le possibilità e gli strumenti per poterlo fare; tra questi vi è anche la formazione.

Nel prossimo articolo ci focalizzeremo proprio sulla nostra visione di formazione in azienda, che parte anche sull’idea che un approccio flessibile e umanistico sia una strada fruttuosa per far crescere le persone, perché, come raccontavamo nello scorso articolo citando John Stuart Mill, “La natura umana non è una macchina da costruire secondo un modello e da regolare perché compia esattamente il lavoro assegnatole, ma un albero, che ha bisogno di crescere e svilupparsi in ogni direzione (…)”.

 

NOTE

*Socrate mutua questo termine dall’attività ostetricia delle levatrici, mestiere che era quello della sua stessa madre. Come le levatrici fanno nascere i bambini, “tirandoli fuori” dalle madri, così Socrate attraverso l’arte della maieutica tira fuori la verità dal proprio interlocutore. 

**L’applicazione del metodo della maieutica ci è restituita attraverso i dialoghi platonici, che hanno come protagonista Socrate, che di volta in volta interroga un nuovo interlocutore su diversi argomenti (per esempio: l’immortalità dell’anima nel Fedone, la virtù nel Menone, l’amore nel Fedro e nel Simposio, etc.), smontando le convinzioni iniziali di quest’ultimo attraverso un dialogo serrato. Le domande che Socrate pone portano l’interlocutore a contraddirsi e a scoprire da sé l’infondatezza delle sue idee iniziali.