Time to (design) think!

All’inizio di Aprile, proprio nel mezzo del lockdown, su BusinessIllustrator.com è stata pubblicata un’illustrazione dal tono ironico: “Who led the digital transformation of your company?”. Nell’immagine leggiamo tre risposte: Chief Executive Officer (CEO), Chief Technology Officer (CTO) e Covid-19. Voi da che parte state?

Diciamocelo: per quanto il Covid-19 non sia faccenda su cui riderci sopra, l’illustrazione di Business Illustrator sintetizza con estrema lucidità alcuni dei principali attori dei processi di trasformazione digitale delle imprese, ponendo in primo piano il ruolo del contesto.

Con la sua intelligente ironia questa immagine ci spinge infatti a riflettere su quanto, per parlare di trasformazione oggi, sia importante parlare dei “bisogni alla base della trasformazione”, individuando con obiettività quali sono i fattori che la spingono a volersi (o doversi) trasformare.

Possono essere fattori esogeni, quali ad esempio:

• l’evoluzione del mercato di riferimento: pensiamo ad esempio all’evoluzione digitale del settore Retail e GDO e di come questa abbia pesantemente impattato su l’arena competitiva in termini di Operations, di Sales e di Promotion;

il repentino cambio della domanda di mercato, come è accaduto nei settori del trasporto privato o delle consegne di cibo a domicilio;

i nuovi trend provenienti da settori di mercato storicamente distanti, come è avvenuto con l’ingresso di Amazon nella produzione di beni di largo consumo, o di Apple nel settore degli orologi da polso.

Oppure possono essere fattori endogeni, come:

• la sopravvivenza economica della struttura organizzativa, in larga scala dipendente da un efficientamento su base digitale dei processi;

il cambio di cultura manageriale e la conseguente ridefinizione degli obiettivi e del modello di business dell’impresa, come avvenuto per i colossi dell’industria 4.0, le cui reti vendita – storicamente abituate a promuovere prodotti fisici, hanno dovuto in poco tempo imparare a vendere soluzioni Internet of Things (IoT) in grado di generare dati “monetizzabili” dai clienti finali;

l’abbattimento della tradizionale “comfort zone” aziendale, che ha posto per moltissimi anni i dipendenti al riparo (o per meglio dire, all’oscuro) della rapidità e dell’impatto che la tecnologia digitale stava avendo sul mercato e sul loro futuro modo di lavorare.

In entrambi i casi, l’esperienza maturata negli anni in Twig ci ha insegnato che per comprendere il bisogno di trasformarsi è necessaria – in ogni struttura organizzata tanto quanto in qualsiasi gruppo sociale, la presenza di una figura pronta a recepire gli stimoli di “tensione verso il cambiamento” da una posizione che consenta non solo una visione sistemica, ma un set di azioni erogate nei giusti tempi e con le giuste modalità. Una figura che sia sostanzialmente in grado di:

• promuovere, progettare, avviare un processo di trasformazione realmente rispondente a uno o più bisogni emersi nella fase di ascolto;

prevedere il punto di arrivo e di comunicare alle persone che compongono la struttura il significato più profondo alla base di questa esigenza di trasformazione.

Un vero leader, insomma!

Del resto, piú che una mera (e triste) implementazione del digitale e delle nuove tecnologie nelle realtà organizzate, la trasformazione che tutti amiamo impropriamente definire digitale rappresenta la capacità che le aziende hanno di modificare la propria struttura per progettare un evoluzione che è in primis culturale. 

Questa capacità è abilitata dalla visione sistemica che un CEO o un manager sono in grado di mettere a fuoco prima di attivare una qualsiasi forma di azione propedeutica al cambiamento, ed è grazie a questa competenza fondamentale che l’autorevolezza del ruolo di questo nuovo sponsor per la trasformazione può davvero supportare e gestire un processo di una simile complessità.

Ma perché parliamo del CEO o del manager come nuovo sponsor della trasformazione?

Sostanzialmente perché la trasformazione digitale è sempre stata interpretata come un’evoluzione tecnologica e, come tale, delegata a chi era deputato alla gestione della tecnologia: il responsabile dell’Information Technology (IT), l’odierno Chief Technology Officer (CTO). 

Questo standard di riferimento (“si è sempre fatto così!”), vagamente accettabile in un epoca dove la tecnologia valeva tanto quanto pesava, ha però creato situazioni mitologiche giunte a noi come storie horror tramandate di generazione in generazione: “ma tu dovevi esserci quando…” una funzione dell’azienda identificava la necessità di avere (ad esempio) un CRM con una maggiore flessibilità del dato, la scelta veniva affidata al responsabile della tecnologia che, sulla base delle proprie conoscenze tecniche, individuava la nuova piattaforma e su questa, venivano poi ri-definiti i processi interni, le competenze e (in alcuni casi), anche le persone. 

Il finale della storia è più o meno sempre lo stesso: un’impresa, anche di grosse dimensioni, finisce per progettare i propri processi sulla base di una tecnologia proprietaria di un’altra impresa, che un domani decide di modificare strutturalmente questa tecnologia, obbligando coloro che l’hanno adottata a un nuovo cambiamento – di certo non basato sui propri bisogni di business. 

Ma c’è di più: ci sono le persone.

Una tecnologia “calata” dall’alto ha spesso conseguenze negative sulle risorse umane che dovranno utilizzarla, e se non si parte da una fase di ascolto dei bisogni umani (non tecnologici) e non si adotta un approccio di co-design in grado di mettere seduti al tavolo i reali stakeholder legati al processo che dobbiamo digitalizzare, il rischio è che questa tecnologia venga “boicottata” o mal utilizzata, vanificando l’investimento di tempo, economico e di risorse umane. 

Ma quindi, è (ancora?) vero che chi governa e ha le competenze tecniche per introdurre la tecnologia, sia il miglior sponsor della trasformazione digitale in azienda? Può un processo che parte dall’introduzione di una tecnologia in un’impresa, abilitare una più complessa e organica trasformazione digitale? I bisogni alla base della funzione IT sono i bisogni alla base della trasformazione di un’impresa nel suo complesso?

A queste domande esistono risposte articolate, buona parte delle quali hanno portato il nostro gruppo a una convinzione che già da due anni è presente nel nostro libro, Digital Transformation, Metodi e strumenti per guidare l’evoluzione digitale delle imprese attraverso design, marketing e comunicazione: “la riorganizzazione attivata da un percorso di trasformazione digitale organica spinge le imprese ad abbattere le divisioni tipiche delle singoli funzioni, portando interlocutori di diversa natura sullo stesso tavolo decisionale, con dati e obiettivi comuni.” 

È in questa direzione, grazie soprattutto all’incredibile sinergia con il gruppo di ricerca Imagislab della Scuola del Design del Politecnico di Milano (Marisa, Francesca, Mariana, siete sempre con noi!) abbiamo sviluppato un metodo che ci ha permesso di guardare la questione da un altro punto di vista, quello dei quattro bisogni comuni a tutti i sistemi di organizzazione sociale e di impresa: il bisogno di rinnovata identità, che risponde alla domanda “Chi siamo? A cosa aspiriamo?; il bisogno di una nuova posizione, che risponde alla domanda “Dove vogliamo andare?”; il bisogno di avere una nuova offerta, che risponde alla domanda “Come portiamo rinnovato valore al nostro pubblico?”; il bisogno di strutturare una nuova organizzazione, che risponde alla domanda “Come lo facciamo?”.

 

Il processo di progettazione Double Diamond

Questo metodo di analisi dei bisogni reali e potenziali è stato pensato per garantire la massima fluidità e interoperabilità delle funzioni aziendali e per “abbattere” quella cultura organizzativa a silos per cui, attraverso un budget personale, il singolo sponsor (magari, proprio il CTO) può spingere una “porzione di trasformazione” senza quell’approccio organico che è fondamentale per un rinnovamento su vasta scala. Siamo designer che abilitano la trasformazione a partire da funzioni aziendali che si occupano di relazione (il marketing e la comunicazione), ed è questo approccio marcatamente human driven e fortemente orientato a creare valore di business, che ci ha permesso di comprendere negli anni quanto il design sia la disciplina prediletta da chi ha il compito di individuare i bisogni fondamentali per progettare e guidare la trasformazione.

Ma quanto il design è un veicolo per la trasformazione delle imprese oggi? In realtà, molto meno di quanto potrebbe.

Da un lato il design ha affiancato al suo approccio legato al saper fare, un’impostazione strategica sempre più legata al saper trasformare la cultura d’impresa, il che rende evidente il perché le sue metodologie siano sempre più ricercate dal management per attivare una trasformazione: ce lo dice anche l’ultimo report degli Osservatori Digitali Del Politecnico di Milano (Design Thinking for Business (Marzo 2019). Mapping Design Thinking: Transformations, Applications and Evolutions. Osservatori.net Digital Innovation.), che cito tradotto in italiano:

Questo risultato rafforza l’interpretazione diffusa del Design Thinking come paradigma in grado di supportare progetti strategici. Se il servizio e il prodotto rappresentano i domini storici in cui è possibile applicare Design Thinking, è interessante notare che il dominio del processo / organizzazione è, in media, abbastanza rilevante: 1 progetto di consulenza su 10 affronta i problemi di processo e organizzativi, almeno in termini di i guadagni ottenuti dalle organizzazioni di consulenza.

Un quadro potenzialmente molto positivo, per noi designer. Ma c’è un però, che per quello che mi riguarda è il principale vincolo che la nostra professione ancora subisce quando si parla di trasformazione: il suo inserimento nei board decisionali delle imprese avviene sovente attraverso professionisti che non hanno un background da designer, e che spesso non sono designer! 

Il quadro a cui troppo spesso (impietosamente) assistiamo è quello del design (thinking e non) vissuto come una sorta di integratore alimentare, somministrabile per un periodo di tempo sufficiente a “sbloccare” la mente del manager e a favorire un approccio marcatamente laterale, lasciando però che persista una base solidamente funzionale, magari fortemente legata a una cultura ingegneristica o economica. 

Intendiamoci, in Twig questo problema è stato vissuto marginalmente: in buona parte delle realtà per cui facciamo consulenza, veniamo scelti per la cultura del design che ci sostiene e per la innata capacità di essere mediatori culturali capaci di tracciare un percorso e costruire un linguaggio universale in grado di dare significato a una trasformazione che fa ancora molta paura. 

Ma come formatore della Scuola del Design e più in generale, come professionista follemente innamorato di questa disciplina, il tema che mi trovo sempre più spesso ad affrontare è come promuovere un passaggio culturale determinante per la sopravvivenza della nostra comunità scientifica, al di là dei tecnicismi: la sfida è oggi quella di passare da una primordiale diffusione del design come brainwashing per i manager, all’inserimento del designer come figura che possa affiancare il manager nei processi di trasformazione, in una logica che premia il passaggio dall’imperativo del fare contingente, al bisogno di trasformare a medio-lungo termine.

Noi ci stiamo mettendo del nostro per far si che accada: lo è stato per alcuni nostri casi di successo, come la trasformazione digitale guidata per oltre tre anni per la divisione Electrification Product di ABB (2017 – 2019), che ha visto tra le tante attività l’inserimento in azienda di una ricercatrice, storica collega e amica (Simona Venditti) a fianco del manager che ha attivato la trasformazione: in una grande multinazionale ingegneristica, guidata da ingegneri, la disciplina del design non è stata scelta solo come modus pensandi, ma soprattutto come modus operandi, provocando una reazione a catena di cui oggi si osservano risultati molto più che positivi. Gli ingredienti sono stati pochi, ma “originali”: un manager illuminato che oggi porta il suo modello in giro per il mondo (Gabriele Morosini), una prima linea di uno spessore culturale unico (Piero Novali, Paolo Baroncelli, Simona Cislaghi, Claudio Raimondi e Andrea Vicario), una realtà di consulenza basata sulla cultura del design (noi) e un’università (La Scuola del Design del Politecnico di Milano) capace di affiancare con operazioni di Co-Design pratiche ed efficienti la multinazionale, laddove i processi della stessa non consentivano una vera operazione di open innovation.

Ma cosa spetta quindi al designer per la trasformazione oggi, in questo contesto di continua evoluzione del mercato? Un ruolo da leader. Non c’è altra possibilità.

Ma per farlo, è necessario che la comunità scientifica che lo supporta e i professionisti che ogni giorno portano risultati nelle imprese tirino fuori la testa dalla sabbia, si accorgano della profonda opportunità che hanno di fronte e contribuiscano una volta per tutte a far si che una disciplina nata per promuovere il saper fare, oggi integri in modo strategico quelle competenze (intelligenza emotiva, leadership e competenze di change management) capaci di dare un nuovo significato a termini abusati e bistrattati quali human-centered e people first, rendendo davvero autorevole questa nuova tipologia di consulente capace di orientare e di assegnare un nome al cambiamento, neutralizzando la paura dell’ignoto.

In altre parole, è arrivato il momento che il ciabattino (designer) smetta di sistemare le scarpe degli altri (non facciamo nomi, ma ci siamo capiti), chiuda per ristrutturazione e si sistemi le proprie: perché il viaggio per orientare la trasformazione è ancora lungo e sarebbe davvero un peccato non viverla da protagonisti.