
Lavorare in smart working è un’esperienza propria del XXI secolo e dal mese di marzo 2020 è diventata un’esperienza comune a tutti i lavoratori, alcuni dei quali non avrebbero mai pensato di accedervi.
Cos’è successo in Twig nel passaggio “forzato” da lavoro tradizionale a smart working?
Noi millennials – e sicuramente anche la Generazione Z che ci ha seguito – sappiamo molto bene cosa significhi essere figli di lavoratori che rincasavano a orari imprevedibili, bloccati in tangenziali tentacolari senza possibilità di avvisare chi li aspettava, con valigette di pelle pesanti come condanne ed esaurimenti nervosi grandi solo quanto la loro voglia di trovare del tempo per sé e per noi.
Conosciamo talmente bene quel tipo di vita e le sue conseguenze che abbiamo scelto come missione professionale tenercene alla larga quanto più possibile.
Siamo disposti a sgobbare, a fare tardi e a dare il massimo solo se ne vale la pena, solo se ci rende felici, solo se ci permette di realizzarci come individui. Non lo facciamo per denaro, ma per realizzazione personale; se guardiamo la piramide dei bisogni di Maslow ci siamo posizionati un gradino più in alto dei nostri genitori, sulla cima della piramide.
E come entra il tempo nella trattativa di assunzione? Sotto forma di accesso allo smart working.
Sembra proprio che in questo momento storico [pre Covid-19] lavorare in smart working sia la carta più di valore che un’azienda possa calare sul tavolo della trattativa di assunzione di un nuovo dipendente.
Fino a poche settimane fa però, è stata anche una merce difficile da offrire per le aziende piccole, perché molti erano i paletti e poche le possibilità di superarli. Per lo meno fino al primo DPCM del 9 marzo 2020, che ha di fatto reso possibile a chiunque, senza vincoli di sorta e in deroga a tutte le limitazioni, lavorare in smart working.
Il Covid-19 è diventato quindi il più grande esperimento di smart working mai visto al mondo, che – escluse categorie particolari ben note – ha coinvolto all’improvviso tutti i dipendenti di tutte le società di tutti i paesi colpiti dal contagio.
Twig era una di queste società e anche noi siamo passati dal vivere gomito a gomito, a sentirci solo a distanza.
Considerando che Twig è anche una società che non era riuscita fin ora ad accedere allo smart working, il salto è stato grosso. E aggiungendo anche la componente di paura, ansia e incertezza che nelle prime settimane ci ha invasi tutti, questo cambio poteva diventare una bomba nucleare per la produttività.
Come abbiamo agito quindi?
Forse possiamo considerare Twig il primo caso studio della stessa Twig in materia di Change Management in situazione di crisi.
Dal punto di vista organizzativo abbiamo messo poche, chiare e semplici regole e ognuna di esse ci ha dato occasione di rimodulare altre abitudini.
Innanzi tutto siamo passati dall’orario lavorativo flessibile, ad un orario fisso.
Alle 9:00 tutti online sul Slack, l’app che usiamo come chat interna, e alle 18:00 tutti offline – con un’ora di pausa che abbiamo anche avuto il piacere di fare tutti insieme.
Questo sembra essere tutto tranne che una buona premessa per lavorare in smart working perché la flessibilità dovrebbe essere la keyword, ma è altresì vero che il nostro lavoro avviene per oltre il 50% in team ed era quindi necessario definire in che fascia oraria si giocassero le partite.
Abbiamo militarizzato il già militare uso di Active Collab, sistema di project management che usiamo da anni: ogni attività veniva suddivisa in task assegnati a chi aveva il compito di portarli a termine e in questo modo avevamo sotto controllo l’avanzamento delle lavorazioni anche senza chiedere avanzamenti.
Abbiamo velocizzato il controllo di gestione, rendicontando sul nostro gestionale (sviluppato ad hoc da noi per noi) le ore lavorate quotidianamente. Lo scopo era quello non tanto di controllare le attività, ma di monitorare lo “staffing”, il tasso di occupazione del team.
Dulcis in fundo, abbiamo usato Google Calendar non solo per gli appuntamenti, ma anche per verificare gli impegni dei colleghi prima di contattarli e per la creazione di sale riunioni virtuali tramite Meet.
Sulla carta andava tutto benissimo, ma abbiamo tirato le somme dopo una settimana e ci siamo resi conto che, se da un lato i 4 punti precedenti erano stati un successo, si sono presentati 2 problemi imprevisti: infinite notifiche a disturbare la concentrazione di ognuno di noi e la sensazione di essere sempre tutti intrappolati in un susseguirsi di call senza soluzione di continuità.
Quindi abbiamo gestito questi due problemi così:
[estratto della mail inviata al team]
Difficoltà 1 – troppe notifiche da gestire
Ovviamente, non ci possiamo guardare passeggiando in open space, quindi non possiamo beneficiare del segnale condiviso del “cuffie = non rompermi gli zebedei”.
Per evitare continue interruzioni, vi consiglio:
1. Silenziate Whatsapp quando siete impegnati > se uno ha urgenzaurgenza vi telefona.
2. Usate gli status su Slack > se uno vi vede che come status avete “Riunione” o avete attivato la funzione “Non Disturbare” sarà più facile non disturbarvi >> se uno ha urgenzaurgenza vi telefona.
3. Invece che chattare 10′ passandone 5′ a capire cosa voleva dire l’altro, chiamatevi per 3′.
4. Non scrivete quello che non serve > intendo che le conversazione a base di “grazie / prego / grazie a te / a dopo / perfetto / ok” possono essere sostituite da una reaction sul messaggio, che rende l’idea e non spara notifiche. Tanto, ammettetelo, una volta che scrivete “grazie” non vi frega di sentire tornare un “prego” e siete già tornati al lavoro.
Lo so che suona un po’ un assassinio dell’empatia, non è così. Una reaction vale 1000 parole.

Difficoltà 2 – Troppe riunioni, troppo serrate
Prima di affrontare questo punto, vorrei proporvi una riflessione.
Quando siamo in ufficio, siamo tutti lì. Se ho bisogno di chiedere una cosa a tizio e caio, lo faccio al volo, mi basta uno “Scusa puoi venire un attimo” e la faccenda si risolve su due piedi.
Da remoto no, quindi parte la call con puntello in calendario e questo fa percepire come riunioni anche cose che riunioni non sono, appesantendo la percezione della quantità di riunioni svolte.
Detto questo, vi propongo quest’altro:
1. Datevi sempre 10′ accademici dall’inizio della riunione. Così c’è un cuscinetto sia per i ritardatari che per i puntuali che vogliono un caffè o fare la pipì. Io oggi non faccio pipì dalle 3 per esempio e sono le 7.
2. Durante le call spegnete tutte le notifiche, non aprite le mail o il cellulare e non approfittatene per dare uno sguardo a social o news. Vi fanno percepire che siete in sovraccarico, quindi in realtà il sovraccarico ve lo state creando da soli.
3. Fate le call in piedi. Vi farà venire molta voglia di finire in tempi umani e vi farà sollevare le chiappe dalla vostra sedia – di cui vi siete lamentati tutti, ma che non posso venire a cambiarvi.
Per il resto, è andato tutto bene.
Un po’ di ironia, buon senso e praticità hanno egregiamente risolto tutto e le cose sono andate decisamente meglio nella seconda settimana.
A un mese dall’inizio, posso dire che per noi lavorare in smart working è stato un processo che si è svolto a piccole tappe, con diversi aggiustamenti, ma che è stato realizzato con soddisfazione per tutti: la produttività non ne ha risentito in modo notevole, abbiamo reagito con prontezza alle nuove necessità organizzative e, dopo i primi aggiustamenti, siamo riusciti a vivere questa nuova situazione con grande serenità.
Tutt’altro discorso è quanto ci manchiamo l’un l’altro e quanti pranzi, aperitivi e caffè virtuali abbiamo organizzato per sentirci sempre coesi e uniti come team e come azienda.
Questa però è tutta un’altra (bella) storia…